Una nuova ricerca evidenzia quanto i bisogni dei caregiver e dei sibling nella malattia di Huntington siano molto simili
di Simone Casiraghi
“Non chiamateci caregiver: siamo equilibristi sospesi tra il volare via e il senso di colpa”. “Ogni piccolo gesto di aiuto farebbe la differenza, ma non sappiamo a chi chiederlo”. È sconvolgente come il 68% dei caregiver Huntington non riceva alcun aiuto pratico, mentre i sibling si sentono “trasparenti” agli occhi del sistema sanitario.
Ancora. La generazione under 35 sacrificata, forse anche “tradita”: i dati mostrano che sono i giovani i più abbandonati. Cercano informazioni online (70%) perché le istituzioni latitano, e soffrono di un conflitto lacerante tra il desiderio di autonomia e il senso di colpa verso i fratelli malati. E poi c’è la resilienza come atto di sopravvivenza: il 96,4% dei pazienti Huntington disposto a sperimentazioni cliniche, i sibling che sviluppano creatività ed empatia uniche. La metafora dell'”equilibrista” inventata e usata da loro stessi è potentissima: prendersi cura non dovrebbe significare annullarsi. Ma alla fine i due mondi scoprono di non essere soli. Da un insegnamento prezioso: “La nostra forza nasce dalla condivisione. Quando parliamo della nostra esperienza e con confrontiamo con persone che conoscono quello che stiamo dicendo, prima si piange e poi si sorride insieme. È questa la cura che lo Stato non capisce”.
C’è un filo rosso che attraversa i bisogni
Colpisce subito il filo rosso che attraversa tutte queste considerazioni. Emergono da due ricerche diverse, ma profondamente connesse. La prima, condotta da Moving Forward, ha dato voce alla comunità Huntington in Italia, raccogliendo i bisogni e le esperienze di pazienti e caregiver (Qui il webinar di presentazione, e qui dove ne abbiamo parlato). La seconda indagine, presentata in proprio questi giorni da Omar, l’Osservatorio sulle malattie rare, guidata e coordinata da Laura Gentile nell’ambito del progetto Rare Sibling, si concentra specificamente sui bisogni e sui vissuti dei fratelli e delle sorelle di malattie rare – i sibling – che accompagnano il percorso della patologia accanto ai propri cari.

La richiesta di strumenti per affrontare la malattia
È significativo quanto parallelismo e similitudini emergano da queste due dimensioni umane: entrambe raccontano la stessa storia, di chi vive accanto alla malattia e chiede strumenti concreti per affrontarla, dignità per il proprio ruolo, e una rete che non sia solo assistenziale, ma anche umana.
Nella prima indagine, promossa da Moving Forward con il supporto di Huntington Onlus, sono state raccolte le risposte di 179 persone direttamente coinvolte nella malattia: pazienti, familiari, caregiver. Emergono bisogni pratici – come assistenza quotidiana e supporto burocratico – e bisogni emotivi profondi, come il desiderio di sentirsi compresi, sostenuti, guidati. Il 68,2% dichiara di non ricevere alcun tipo di supporto nella gestione pratica della malattia. Quasi il 56% segnala l’urgenza di un sostegno psicologico. “Ho bisogno di sentirmi capita, non solo trattata”, si legge in un commento. Il senso di isolamento è altissimo, anche nei giovani: l’82,3% degli under 35 chiede luoghi di riferimento dove ricevere aiuto, confronto, umanità.

Un legame speciale che è anche fonte di paura
Lo stesso grido emerge, con parole diverse ma simili emozioni, nella nuova ricerca firmata dall’Osservatorio Omar. Qui il focus si restringe, ma non troppo: al centro ci sono i sibling, fratelli e sorelle di pazienti con malattie rare, tra cui molti casi di Huntington. Nei gruppi esperienziali seguiti da psicologi, adolescenti e giovani adulti hanno raccontato paure, sogni, contraddizioni. Gli adolescenti vivono il legame con il fratello o la sorella malata come speciale, arricchente, ma anche fonte di paura e senso di diversità rispetto ai coetanei. I giovani adulti sono divisi tra il desiderio di autonomia e la responsabilità verso il familiare malato. Sentono il peso del futuro, un futuro in cui dovranno farsi carico da soli del fratello o della sorella.

“Equilibristi”, appunto, si sono definiti. “Si sentono in bilico – racconta la coordinatrice della ricerca, Laura Gentile – tra normalità e straordinarietà, tra desiderio di libertà e senso del dovere, tra la paura della perdita e la forza che deriva da quell’esperienza unica”. È una definizione che potrebbe valere per tutta la comunità Huntington.
Tutti chiedono un luogo di ascolto
Anche i caregiver adulti della prima indagine raccontano la fatica di conciliare vita personale e assistenza, l’impatto pesante sul lavoro, sulla relazione di coppia, sulla genitorialità. Anche loro chiedono riconoscimento, condivisione, possibilità di scelta.
Entrambe le ricerche sottolineano un’urgenza: costruire reti vere, capaci di accompagnare queste persone lungo tutto l’arco della vita. Tutti chiedono strumenti concreti, informazione accessibile, luoghi di ascolto e confronto. E soprattutto, vogliono uscire dall’invisibilità. “I sibling vogliono poter scegliere se prendersi cura del fratello o della sorella – spiega Laura Gentile – ma devono essere messi in condizione di farlo, o di non farlo, con la stessa dignità. Serve un supporto concreto e stabile da parte delle istituzioni e del territorio”.
Il primo bisogno: riconoscere il loro valore
Le due ricerche, lette allo specchio, consegnano una fotografia che va oltre il peso dei numeri. È un ritratto umano, intenso, anche doloroso ma pieno di risorse. I caregiver e i sibling non sono solo persone stanche: sono persone consapevoli, resilienti, capaci di trasformare un’esperienza difficile in un motore di empatia e competenza. “Ma perché questo accada davvero, serve riconoscere il loro valore, sostenerli con risposte mirate, farli uscire dal silenzio. Perché dietro ogni malattia rara, come la Huntington, non c’è mai solo una persona – conclude Laura Gentile -. C’è una rete di affetti, legami, fragilità. C’è un’intera comunità che ha bisogno di sentirsi vista”.