La community Huntington è fatta di pazienti, familiari, caregiver. Persone, molti giovani, che chiedono ascolto, dignità e strumenti concreti per affrontare una quotidianità difficile, segnata dalla fatica, dalla solitudine, dallo stigma. Il grido che arriva è chiaro: “Abbiamo bisogno di essere guidati, capiti, sostenuti. Non solo nella cura, ma nelle emozioni, nei gesti di tutti i giorni, nella burocrazia che ci lascia soli”. La richiesta è di interventi reali nella quotidianità, di più ascolto e di sostegno psicologico per tutti, di più punti di riferimento. L’obiettivo è rompere la frammentarietà associativa fra territori che porta a isolarsi invece di condividere pratiche, informazioni e solidarietà sociale ed emotiva.
I risultati del “Questionario sulle esperienze e i bisogni della Comunità Huntington in Italia”
Fare riferimento ai commenti lasciati dalle persone è il modo più efficace per leggere i risultati del “Questionario sulle esperienze e i bisogni della Comunità Huntington in Italia”. Il sondaggio è stato messo in campo da Moving Forward, progetto di EHA (European Huntington Association), e presentato in un webinar nazionale da Claudia Villa, coordinatrice per l’Italia di Moving Forward, con il supporto di Huntington Onlus. In meno di un mese sono state raccolte le risposte di 179 persone, tutte coinvolte direttamente o impattate dalla malattia: la maggior parte sono donne, il 77%. Il 53,1% è un lavoratore dipendente, il 13,1% è un autonomo, mentre nel campione under 35 l’80% dei partecipanti lavorano, come dipendenti o come liberi professionisti. Il parallelo con i più giovani segna una lettura nuova intorno ai bisogni emersi nella community Huntington. Anche se c’è un dato forte che annulla questa differenza. Proprio perché la “fame di sapere” sulla ricerca scientifica è un interesse è altissimo, il 96,4% sarebbe disposto a partecipare a una sperimentazione, il 100% proprio tra gli under 35.

Ma il quadro dei bisogni è stato tracciato soprattutto per predisporre interventi concreti a quelle domande: “Vogliamo dare risposte pratiche e dirette – spiega Claudia Villa commentando i risultati -. Vorremmo partire con webinar dedicati e incontri online per condividere storie ed esperienze personali, momenti importanti per conoscersi, per poi approfondire con focus tematici e far emergere maggiore consapevolezza cercando di superare quello stigma che ancora circonda questa malattia: il primo webinar è già stato messo in calendario, il prossimo 17 settembre. Il secondo passo: organizzare percorsi di formazione con operatori ed esperti, per esempio attraverso “chiacchierate rigorose sui trial”. Ma soprattutto, il vero passo che vogliamo fare – spiega Claudia Villa – è riuscire a mettere in campo aiuti veri e quotidiani, strumenti concreti per la gestione domestica e relazionale dei malati e di supporto per chi se ne sta prendendo cura”.
La disinformazione
Resta un punto importante sullo sfondo. Emerge dai tanti commenti lasciati nelle risposte aperte del questionario: “Penso sia una malattia non ancora ben conosciuta a livello generale – si legge e sottolineato -. Dover sempre spiegare cos’è a chi non sa è stancante alle volte. Specie perché comprendo di non essere compresa”. Ancora: “C’è molta disinformazione soprattutto tra gli operatori sanitari, per esempio fra i medici di base, che pertanto faticano a seguire questi pazienti”. Ma c’è anche questo: “Mio papà è affetto da questa malattia ad uno stadio molto avanzato e siamo seriamente in difficoltà per questioni burocratiche – si legge -, l’Asl non vuole concedergli la convenzione per un ricovero residenziale. Questo perché non conoscono la malattia e hanno paura dell’evoluzione. Troppi pochi operatori conoscono questa malattia e si basano solo sulla letteratura per informarsi perdendo di vista le necessità del singolo”.
Il mosaico resta complesso. “Crediamo che il primo passo sia ascoltare le storie di ciascuno e costruire relazioni, far capire che nessuno è solo – ha spiegato Claudia Villa -, che chi è coinvolto da questa malattia può contare sull’aiuto di ciascuno di noi, che è decisivo condividere e far emergere casi ancora sommersi per timori emotivi”.

Un mosaico anche composito. Fatto di bisogni pratici, un sistema che soffre di isolamento emotivo, che ha tanta sete di informazione soprattutto di studi clinici, sullo stato della ricerca su farmaci, terapie, dispositivi. Sulla ricerca in generale e sulle prospettive di cura. Una sete di informazione e sensibilità alimentate anche dal tempo di impatto con questa patologia: il 68,1% conosce la malattia di Huntington da oltre 10 anni, sintomo di un coinvolgimento di lungo: “Convivo con l’Huntington praticamente da una vita – si legge in un commento – ci convivo da sempre. Mio padre, mio fratello, mia sorella, parenti vari”. Più della metà, il 64,6%, si sta prendendo cura direttamente di una persona malata, mentre una su due (il 51,9%) convive con un paziente. Conoscenza e comunicazione, quindi: se sapere si può tradurre in potere per una gestione più efficace della malattia, allora il bisogno è una “domanda di strumenti migliori per avere informazioni”.
Il ruolo importante delle associazioni
Oggi ci si informa nel 70,8% dei casi dai medici, il 61,7% dalle associazioni, il 51,9% cerca informazioni online. Il pattern cambia molto con i giovani: per almeno 7 su dieci degli under 35 il web resta la fonte primaria di informazione. E solo poco più della metà, 55%, parla con le associazioni. Anche per questo, la comunità si definisce esperta, ma si ritiene ancora “non abbastanza connessa”. Nonostante infatti almeno 7 persone su dieci siano in contatto con un’associazione, più della metà (il 53,4%) non si sente parte di una community, mancano gruppi locali (41,7%) e, dove esistono, manca il tempo per frequentarli (31,1%). Pesa anche la presenza di barriere emotive (33%), un ostacolo ancora forte nel mettersi in relazione soprattutto nei percorsi di cura e condivisione. Si legge in un commento: “C’è tanta solitudine, anche se ci diciamo uniti”.

Luoghi di assistenza multidisciplinare
L’assistenza pratica, quotidiana è la carenza maggiore: il 68,2% (il 72,2% degli under 35) dichiara di “non riceverla”. Si parla di aiuto domestico; di supporto per pratiche burocratiche; di accompagnamento durante visite mediche. Fra i tanti commenti lasciati uno emerge in particolare: “Ogni piccolo gesto di aiuto può fare una differenza enorme, ma spesso non sappiamo a chi rivolgerci o cosa chiedere”.
Così il bisogno di luoghi riconosciuti sul territorio dove trovare assistenza multidisciplinare è condiviso da quasi 3 intervistati su 4 (70,3%). Tra i giovani under 35, questa esigenza arriva all’82,3%. E sfiora il 56% il bisogno di supporto psicologico, il più urgente dopo l’assistenza pratica (55,6%), superando il supporto economico (che invece è più centrale nel campione generale). “Ho bisogno di sentirmi capita, non solo trattata”, si legge in uno dei commenti. E guardando al futuro, alla prospettiva di poter avere una maggiore consapevolezza della malattia attraverso medici e associazioni, per “trovare maggiore aiuto a rispondere meglio a una serie di dubbi o incertezze che si presentano”, emblematica la risposta di un altro commento: “Vorrei una guida semplice, non tecnica, che mi aiuti a capire cosa succede nella ricerca”.
L’articolo scritto da Simone Casiraghi Le esigenze della Community Huntington in Italia: oltre la diagnosi, il bisogno di rete, guida e dignità è scaricabile a questo link
Prossimo Appuntamento: Una malattia, diverse facce – mercoledì 17 settembre ore 18
